Le domande ricorrenti

Cos’è facilitazione?

La facilitazione è una capacità sociotecnica che può agire chiunque, per unire le persone nei gruppi di lavoro, per gestire le dinamiche ambivalenti interne, per introdurre un maggiore senso collettivo e di partecipazione. Una capacità da inserirsi nelle organizzazioni di tutti i contesti, nelle relazioni professionali, nei casi di conflitti e negatività, nei casi di complessità e di reti intergruppo.

A cosa serve la facilitazione?

A creare un buon clima di lavoro, un piano di interazione efficace, un modo di condurre problemi e attriti in direzione costruttiva, a fare esercizio di “relianza”, relazione e alleanza, come dice Edgar Morin, ad aumentare il pensiero complesso e la cultura delle relazioni come ci insegna Fritjof Capra. Ma anche saper collegare una moltitudine di punti di vista soggettivi sul mondo e su un oggetto, come afferma il matematico Grothendieck, che definisce “stato di verità” quella situazione in cui si mobilitano le attitudini ricettive e di ascolto, che fanno evolvere le singolarità verso punti di vista più ricchi, di insieme più ampio.

E in quali contesti si può applicare?

In tutti. Abbiamo svolto facilitazioni dall’azienda al carcere, dagli asili agli infermieri, alle polizie e alle forze armate, con gruppi per la pace, del non profit, le cooperative, lo sport, la scuola. Sempre lavorando con adulti.

Perché si parla di “facilitazione esperta”?

Perché è un metodo costruito per il lavoro in gruppo, da esercitare in situazioni complesse e ambivalenti, dove non basta fare discorsi intellettuali o appelli lineari “dobbiamo collaborare”. In ogni gruppo i propositi coscienti sono solo una parte minoritaria delle attività lavorative e comunicative, che presentano una gran massa di processi cerebrali veloci e automatici, accompagnati da poca o nessuna consapevolezza. Un facilitatore (dall’esterno è un esperto, all’interno ha svolto una formazione di base) fa attenzione alle parole che pronuncia nel gruppo, cosa dice e cosa fa, ma al contempo, si centra anche su “come sta assieme al gruppo” (essere-con), specialmente durante momenti stressanti sul piano emotivo, quando la situazione tende a declinare e peggiorare. Tutto ciò connota una nuova capacità esperta. Esperta sta per formata, intenzionale e non casuale e improvvisata.

Chi è il facilitatore?

È un agente di cambiamento. Un moderatore, una persona che sa come calmare l’agitazione tipica di noi umani (artenuare). Secondo il nostro modello è poi un catalizzatore, un mediatore, un agente di aiuto, un motivatore. Il facilitatore sa che molti agiti sono mossi da una forte presenza della paura, che egli prova a trasformare in direzione di sensibilità, fiducia, unione. Il facilitatore assume un ruolo privilegiato di “terzietà”, di persona non implicata, che gli offre una capacità di osservazione nitida. È molto difficile rimanere un osservatore quando sei un partecipante. Morale, il partecipante vede di un problema uno specchietto parziale e autoriflesso, mentre il facilitatore ne intercetta aspetti lucidi aperti, proprio per la suo non implicazione.

Qual è il compito principale del facilitatore?

Far parlare le persone, tutte, e specificare le azioni in forma corale, di team. Ma ha anche il compito di snellire, agevolare, rendere fruibili funzioni e operazioni complesse. La facilitazione si occupa anche di far crescere l’energia dei gruppi, aggiornando la produttività non solo come frutto di vecchi modelli paternalistici che tendono solo ad esaurire le forze. È più bello e appagante lavorare cooperando con gli altri, produce visioni e creatività, ammorbidisce le nostre personalità, coltivando più emozioni costruttive e gentili.

Di cosa si occupa il facilitatore?

Del piano della parola e delle idee, del piano del fare e delle azioni, senza sottovalutare il piano controverso e ambivalente delle emozioni. Si occupa delle persone senza dimenticare gli obiettivi del gruppo e, viceversa, si occupa degli obiettivi senza dimenticare le persone.

Qual è la prima mossa che operate per introdurre la “facilitazione in azienda”?

La consulenza facilitatrice ha a che fare con la complessità, l’interdipendenza, i fenomeni critici di blocco e instabilità. Siamo in un alveo di contenuto che ruota intorno all’aiuto. Di fatto, i problemi complessi di oggi non sono problemi tecnici che si possono risolvere con degli strumenti specifici. Il meglio che possiamo fare è trovare delle “leve azionabili” che sono la chiave della nostra consulenza, che non richiede grosse ricerche dispendiose o piani di soluzione confezionati e top down. Qui entra in campo la nostra più specifica competenza, una “capacità indagatrice”, che costruisce una relazione che consenta al cliente di “imparare a imparare”, di riflettere a trecentosessanta gradi, di sostare nel problema, di affidarsi a livello umano. La nostra prima mossa quindi non è somministrare teorie, tecniche o piani confezionati. Ma agire forme di ascolto e connessione, quali avamposti per capire bene i problemi.

Il vostro approccio può essere utile per competere meglio?

Ogni azienda ha la variabile finanziaria, tecnologica e umana. Noi ci occupiamo della terza, spesso trascurata o anche spesso allestita con troppa leziosità e forma. Il nostro approccio è umanistico, non nel senso che deve sempre perorare la preminenza del fattore sociale, bensì perché persegue la costruzione di ambienti più caldi, che gli studi ci dicono siano quelli dove i fatti e le idee corrono maggiormente. L’human centered lo portiamo in azienda come cantiere aperto, che snellisce le formalità per occuparci di sostanze che scaturiscano da un gioco tri-composto: circolarità, profondità, ritmo. Così i cervelli, le menti e le relazioni possono viaggiare più fluide, possono correggersi più rapidamente, possono vedere più in là. E questo, credo vivamente, rappresenta a pieno titolo una chiave grande per competere meglio.

Quanto dura un intervento tipo?

L’intervento di Formazione-Facilitazione, o anche Facilitazione-Formazione, è composto nelle sue linee essenziali da ascolto dialogico presso le direzioni, facilitazione al tavolo e formazione mirata. Con la prima mossa in azienda possiamo fermarci su una di queste parti o restare aperti sull’intero ventaglio (abbiamo codificato 6 Forme di Facilitazione). Possiamo orientarci su di un percorso breve, medio o anche lungo. Su una progressione che si studia strada facendo. In tale senso, prevediamo anche la “facilitazione a chiamata singola”, un solo intervento di una giornata. Quindi, la durata è davvero costruita su misura, in base alla domanda di entrata e alle disponibilità di ogni azienda.

Ma il Capo-facilitatore è poi davvero una linea di metodo praticabile?

Il tema è complesso, per via della leadership che può essere letta in alcune sue facce come un ossimoro col gruppo. Infatti, facilitazione è sinonimo di gruppo, collettivo, insieme. Credo che tuttavia, si possano avvicinare le due traiettorie, il comando solitario e il gruppo. Almeno il XXI secolo un po’ lo richiede, per la complessità e l’incertezza delle crisi che ci pone dinnanzi. Quindi, non è più tempo di soggetti solitari dominanti, bensì di reti interconnesse, che spingano cervelli e menti nella direzione della pluralità relazionale e della multicausalità. Per unire nella leadership e non dividere. Per spingere al meglio le risorse e le opportunità e non regredire troppo nelle competizioni e squalifiche interne. Questo è il disegno a cui protendere, poi sappiamo, che occorre una ricerca umile e anche morbida, una finestra di tolleranza, per accogliere e trasformare errori e cattive inclinazioni.

La gestione delle negatività, ma davvero riuscite in questo difficile compito? Noi abbiamo provato con moduli sul benessere, ma non è cambiato poi molto?

Anche questo tema è complesso. Diciamo che lo affrontiamo col piede giusto, almeno secondo noi. Lo affrontiamo partendo dall’assioma per cui siamo tutti, dico tutti, di una “natura variabile”, oscilliamo cioè, tra il positivo e il negativo. Tutti siamo con forze e debolezze, tutti abbiamo limiti e risorse, semi positivi e semi negativi. Si tratta di un riflesso universale della nostra specie sapiens. Quindi la formazione su questo delicato argomento prova a ri-allineare i repertori di comportamento, a ridurre i fenomeni di scaricabarile e di capro espiatorio. Che rappresenta l’unico antidoto di una cultura a mio avviso fin troppo mediocre, ignorante e controproduttiva. Siamo “negativi similari” e quindi nei metodi di gestione delle negatività i partecipanti ai nostri corsi lavorano sui vari piani: la negatività con l’altro, la negatività ricevuta, la negatività tra due colleghi, ma anche la negatività personale, abbiamo costruito l’apposito programma “curo il mio negativo”. La negatività la intendiamo in senso ecologico, è portatrice anche di risorse e opportunità.

La formazione che proponete, con la scossa e che elettrizza, cosa vuol dire?

Davvero ci siamo specializzati, mi sono specializzato in aule attive e coinvolgenti. Ho sempre costruito ricche schede di allenamento e in questi ultimi tempi penso anche all’apprendimento profondo. Attivo e profondo? Attivo per l’interazione più simmetrica tra docente e discente, per il passaggio frequente da teoria a pratica (esercizi, prove, simulazioni). Profondo invece per il ricorso alla sollecitazione di tutti e tre i cervelli, che come umani conserviamo nel cranio. Cervello corporeo, cervello emotivo e cervello razionale. Ecco le mie aule, in presenza e a distanza (webinar), risentono di questa tripartizione. Ho studiato e inventato misure, strumenti, esercizi che facilitino le persone in questa direzione. Col cervello trinitario co-coinvolto l’apprendimento è meglio recepito e meglio ricordato.