Qual è la prima mossa che operate per introdurre la “facilitazione in azienda”?

La consulenza facilitante ha a che fare con la complessità, l’interdipendenza, i fenomeni critici di blocco e instabilità. Siamo in un alveo di contenuto che ruota intorno all’aiuto. Di fatto, i problemi complessi di oggi non sono problemi tecnici che si possono risolvere con degli strumenti specifici. Il meglio che possiamo fare è trovare delle “leve azionabili” che sono la chiave della nostra consulenza, che non richiede grosse ricerche dispendiose o piani di soluzione confezionati e top down. Qui entra in campo la nostra più specifica competenza, una “capacità indagatrice”, che costruisce una relazione che consenta al cliente di “imparare a imparare”, di riflettere a trecentosessanta gradi, di sostare nel problema, di affidarsi a livello umano. La nostra prima mossa quindi non è somministrare teorie, tecniche o piani confezionati.

Credo personalmente che l’aiuto possa anche essere rapido, ma occorre prima scoprire cos’ha in testa il cliente e saper indagare e sostare in quel luogo e in quelle prospettive.

Il vostro approccio può essere utile per competere meglio?

Ogni azienda ha la variabile finanziaria, tecnologica e umana. Noi ci occupiamo della terza, spesso trascurata o anche spesso allestita con troppa leziosità e forma. Il nostro approccio è umanistico, non nel senso che deve sempre perorare la preminenza del fattore mentale, bensì perché persegue la costruzione di ambienti più caldi, che gli studi ci dicono siano quelli dove i fatti e le idee corrono maggiormente. L’human centered lo porto in azienda come cantiere aperto, che snellisce le formalità per occuparci di sostanze che scaturiscano da un gioco bicomposto: profondo e circolare. Così i cervelli, le menti e le relazioni possono viaggiare più fluide, possono correggersi più rapidamente, possono vedere più in là. E questo, credo vivamente, rappresenta a pieno titolo il clou delle capacità di competere.

Quanto dura un intervento tipo?

L’intervento di formazione-facilitazione ricordiamo è composto nelle sue linee essenziali da ascolto dialogico presso le direzioni, facilitazione al tavolo e formazione mirata. Con la prima mossa in azienda possiamo fermarci su una di queste parti o restare aperti sull’intero ventaglio. Possiamo orientarci su di un percorso breve, medio o anche lungo. Su una progressione che si studia strada facendo. In tale senso, prevediamo anche la “facilitazione a chiamata singola”, un solo intervento di una giornata. Quindi, la durata è davvero costruita su misura, in base alla domanda di entrata e alle disponibilità di ogni azienda.

Ma il Capo-facilitatore è poi davvero una linea di metodo praticabile?

Il tema è complesso, per via della leadership che può essere letta in alcune sue facce come un ossimoro col gruppo. Infatti, facilitazione è sinonimo di gruppo, collettivo, insieme. Credo che tuttavia, si possano avvicinare le due traiettorie, il comando solitario e il gruppo. Almeno il XXI secolo un po’ lo richiede, per la complessità e l’incertezza delle crisi che ci pone dinnanzi. Quindi, non è più tempo di soggetti solitari dominanti, bensì di reti interconnesse, che spingano cervelli e menti nella direzione della pluralità relazionale e della multicausalità. Per unire nel comando e non dividere. Per spingere al meglio le risorse e le opportunità e non regredire troppo nelle competizioni e invidie interne. Questo è il disegno a cui protendere, poi sappiamo, che occorre una ricerca umile e anche morbida, una finestra di tolleranza, per accogliere e trasformare errori e cattive inclinazioni.

La gestione delle negatività, ma davvero riuscite in questo difficile compito? Noi abbiamo provato con moduli sul benessere, ma non è cambiato poi molto?

Anche questo tema è complesso. Diciamo che lo affrontiamo col piede giusto, almeno secondo noi. Lo affrontiamo partendo dall’assioma per cui siamo tutti, dico tutti, di una “natura variabile”, oscilliamo cioè, tra il positivo e il negativo. Tutti siamo con forze e debolezze, tutti abbiamo limiti e risorse, semi positivi e semi negativi. Si tratta di un riflesso universale della nostra specie sapiens. Quindi la formazione su questo delicato argomento prova a ri-allineare i repertori di comportamento, a ridurre i fenomeni di scaricabarile e di tipo puntiforme, il capro espiatorio solito. Che rappresenta l’unico antidoto di una cultura a mio avviso fin troppo mediocre, ignorante e controproduttiva. Siamo “negativi similari” e quindi nei metodi di gestione delle negatività i partecipanti ai nostri corsi lavorano sui vari piani: la negatività con l’altro, la negatività ricevuta, la negatività tra due colleghi, ma anche la negatività personale, “curo il mio negativo”. Ma la negatività è qui vista in senso ecologico, è portatrice anche di risorse e opportunità.

La formazione che proponete, con la scossa e che elettrizza, cosa vuol dire?

Davvero ci siamo specializzati, mi sono specializzato in aule attive e coinvolgenti. Ho sempre costruito ricche schede di allenamento attive e in questi mesi del 2020 penso anche all’apprendimento profondo. Attivo e profondo? Attivo per l’interazione più spinta tra docente e discente, per il passaggio frequente da teoria a pratica (esercizi, prove, simulazioni). Profondo invece per il ricorso alla sollecitazione di tutti e tre i cervelli, che come umani conserviamo nel cranio. Cervello corporeo, cervello emotivo e cervello razionale. Ecco le mie aule, in presenza e a distanza (webinar), risentono di questa tripartizione. Ho studiato e inventato misure, strumenti, esercizi che facilitino le persone in questa direzione. Col cervello trinitario co-coinvolto l’apprendimento è meglio recepito e meglio ricordato.